Sulle tracce di... Massimo Falascone
Scritto da Ernesto Scurati on 09 Maggio 2016. Postato in Sulle tracce di...
Classe 1956, da più di 35 anni sul palcoscenico, Massimo Falascone è un musicista vero, un compositore illuminato e uno sperimentatore scevro da compromessi; lo abbiamo incontrato in occasione della prima esecuzione in assoluto del suo ultimo progetto in settetto, dedicato al regista francese Georges Méliès, all’avanguardia quanto lui sebbene in una diversa espressione artistica.
TDJ) Il parigino Méliès, oltre che regista e attore, è considerato il vero inventore del cinema, e in particolare di quello fantascientifico, grazie alle innovazioni che ha apportato, tra le quali dobbiamo almeno ricordare le nuove tecniche di montaggio adottate, così come l’introduzione degli effetti speciali. E’ per l’importanza del personaggio che hai voluto dedicargli un progetto musicale, e se no per quale altro motivo?
MF) Detto che da sempre amo il cinema e Méliès in particolare, spesso accade che le idee arrivino per caso, quando meno te lo aspetti. Una sera del precedente inverno occasionalmente ho avuto modo di vedere il film “Hugo Cabret”, di Martin Scorsese, nella quale è rappresentato lo stesso Méliès in età avanzata, nel suo chiosco di dolci e giocattoli all’interno della stazione di Montparnasse, dove realmente ha vissuto. Avevo già visto il film, ma quella sera è scattata una molla, e ho capito e sentito che quel personaggio sarebbe stato l’oggetto del mio prossimo progetto musicale.
Le idee sono come piccoli, strani fantasmi, degli invisibili spiritelli. Continuano a girarti intorno e spesso quando cerchi di afferrarli non si fanno prendere. Ogni tanto però qualcuno si appoggia sulla tua spalla e decide di stare un po’ di tempo con te... e questa volta è successo nel momento giusto, perché dopo aver pubblicato le “Variazioni Mumacs”, musica particolarmente strutturata ed elaborata al computer, avevo voglia di un progetto vivo che nascesse per essere rappresentato dal vivo, dal forte impatto scenico. Méliès è stato un inventore, uno sperimentatore, un artista a tutto tondo che usava trucchi come apparizioni e sparizioni, ripetizioni, metamorfosi, dissolvenze, sovrapposizioni; e soprattutto amava il gioco e il travestimento. Per questo sul palco chiedo ai musicisti di giocare con gli oggetti più strani e di indossare qualcosa di particolare, come un paio di occhiali colorati o un cappello, anche diverso ogni sera, per entrare in sintonia con l’omaggiato rappresentando nel contempo sé stessi. Non è una grande innovazione, se pensi all’Art Ensemble of Chicago, né pretende di esserlo, ma questo è lo spirito.
C’è poi un’altra cosa da dire; mi piace scrivere musica ispirandomi ad altre forme artistiche, e soprattutto al cinema, e amo scrivere brani originali. Cosa c’è di meglio quindi di un progetto dai contenuti miei, inusuale e in continua evoluzione, ispirato al cinema ma dotato di un proprio respiro e di un forte riferimento al sogno e all’astrazione?
TDJ) Che cosa hanno in comune Massimo Falascone e Georges Méliès?
MF) Tanto. Il gusto per il gioco, il paradosso, la fantasia. La voglia di sognare e di viaggiare verso l’ignoto, senza sapere esattamente dove arriverai ma perfettamente cosciente che prima o poi atterrerai in posti nuovi, tutti da scoprire. Méliès esprimeva questi concetti attraverso la fantasmagoria, l’astrazione e il sogno; ha precorso la fantascienza rifiutando l’uso della pellicola per riprodurre la natura così come la conosciamo e la vediamo tutti i giorni. Io allo stesso modo non amo adagiarmi su musiche omologate con regole e convenzioni imposte o comunque predefinite. L’improvvisazione, come sai, sta al centro del mio universo musicale, e quando la si affronta bisogna avere coraggio e rendersi disponibili a compiere un salto che ti porti al di là di quello che ben conosci e hai già sperimentato, per lanciarsi alla ricerca di mondi sconosciuti. Certo tutto questo comporta dei rischi, bisogna lasciarsi andare pur senza mai perdere il controllo, ma è un viaggio appassionante e si possono fare delle scoperte che prima sembravano impossibili.
TDJ) Normalmente la musica per il cinema è più scritta che improvvisata, a meno che non si tratti di sonorizzazioni estemporanee; il tuo progetto invece lascia ampio spazio all’improvvisazione e gli otto brani hanno un’atmosfera molto diversa l’uno dall’altro. Per quale motivo? E questa musica avrà bisogno delle immagini delle pellicole di Méliès per essere rappresentata o, al contrario, potrà funzionare a prescindere dal video?
MF) Ho scritto questa musica perché funzionasse a prescindere dalle immagini. Non è e non vuole essere musica descrittiva di una rappresentazione video, né tantomeno una sonorizzazione di film muti. Al momento mi sono quindi concentrato sullo sviluppo musicale, ma non escludo che un giorno potremmo suonarla proiettando delle immagini; per questo però mi piacerebbe avere al mio fianco un giovane Méliès, con il suo gusto sviluppato per le forme astratte, che giochi insieme a me e ai musicisti che mi accompagnano in questa esperienza con le “sue” immagini. Insomma, non è musica PER il cinema, ma musica che vive INSIEME al cinema, come se io e il “mio” Méliès immaginario avessimo costruito insieme 8 percorsi paralleli, visivi e sonori, ciascuno con mezzi e tempi propri.
Gli otto brani sono molto diversi tra loro perché ciascuno prende ispirazione, o per meglio dire deriva dalla visione e dall’analisi di uno specifico film, con le sue suggestioni inevitabilmente diverse dalle altre pellicole cui faccio riferimento; quindi otto brani per otto film, ciascuno con le proprie caratteristiche, il cui doppio filo conduttore è costituito solo dal suono, ricercato nel più minimo dettaglio, e dall’improvvisazione. Così il tortuoso percorso del flusso musicale si snoda attraverso i più diversi generi (se tale classificazione può avere ancora un senso), sfiorando un valzer suonato da un carretto a 4 ruote di quelli che diffondevano musica per le strade nei primi anni del ‘900, reminiscenze ornettiane nel brano “Non Impossibile” (ispirato dal film “Viaggio attraverso l’impossibile” di Méliès), il prog-rock dei Gong di Daevid Allen in “Maquillage” (con riferimento al corto del 1904 “Le roi du maquillage”), fino a “Homorchestra” (che prende spunto da “L’homme-orchestre”), in cui si avverte appena la presenza dell’Arkestra di Sun Ra. Chiude la scaletta una ninna nanna che cita un canto popolare cileno, unico episodio non relazionabile all’omaggiato francese.
TDJ) Nella presentazione del progetto scrivi che “...“Méliès” è anche un luogo archeologico, in cui si possono trovare frammenti del pensiero musicale di altri che ci hanno preceduto, prediletti autori di un recente passato, le cui memorie costituiscono la base su cui si fonda questa musica. Una musica forse non più - o non solo - d’avanguardia, che vuole consolidarsi in una moderna tradizione e resistere così alle scosse del tempo ...”. Credi che la sperimentazione su cui hai iniziato a lavorare negli anni ’80 sia ancora proponibile nel 2016, o pensi invece che un cambiamento sia ormai necessario? Muhal Richard Abrams dice che se oggi lui è definito un musicista d’avanguardia, alla sua veneranda età, c’è da preoccuparsi per il futuro di questa musica...
MF) Abrams è un grande punto di riferimento e ha ragione quando esprime la sua preoccupazione per il futuro di questa musica; in realtà ci sarebbe da preoccuparsi anche per il PRESENTE, anche se magari per motivi diversi.
Io credo che i grandi maestri della musica creativa ci hanno insegnato che le idee che stanno alla base della loro arte rimangono sempre le stesse, poche e ricorrenti in tutto il loro percorso artistico. Guarda Mingus, Duke, Ornette e persino Steve Lacy e Miles Davis; tutte carriere basate su scelte rigorose perpetrate fino alla fine, con idee che si sviluppano e modalità di sperimentare che cambiano e si aggiornano, ma appoggiate sempre sulle stesse solide fondamenta. Ecco, queste idee crescono, si consolidano, si muovono, si spostano, sembrano andare altrove, ma prima o poi ritornano; non è un cambiamento, ma un’evoluzione. E i grandi artisti che ho citato, guarda caso, sono anche tra i miei principali riferimenti stilistici, proprio per la loro coerenza e per la capacità di cercare sempre il nuovo, in contesti anche profondamente diversi tra loro, rimanendo tuttavia fedeli alla loro personale concezione artistica.
Certo, le mie sperimentazioni oggi non sono le stesse degli anni ’80, ma se ascolti “Musimprop”, che risale a 25 anni fa ed è stato recentemente ristampato dall’etichetta “Setola di Maiale” (e colgo l’occasione per ringraziare Stefano Giust per la sua sensibilità e disponibilità a distribuire questo tipo di produzioni, che solo chi è un musicista prima ancora che un discografico può avere), puoi renderti conto che questa musica è ancora attuale, grazie alla rigorosità e alla solidità delle idee da cui prende le mosse. Come dice il trombonista Giancarlo Schiaffini, “...l’improvvisazione non si improvvisa...”.
La mia idea ricorrente, ormai consolidata, è quella di tentare di coordinare la scrittura con l’improvvisazione; non so dirti se e quanto ci sia di nuovo in questo approccio, che proprio per tale incertezza definisco “moderna tradizione”, però mi fa piacere quando qualcuno, a fine concerto, viene a dirmi di aver sentito “qualcosa di nuovo”. In altre parole, cerco di “organizzare” la libertà, rimanendo al contempo aperto alle sorprese e ad accogliere, anzi, a cercare l’inaspettato.
TDJ) Come mai negli ultimi anni nelle tue proposte musicali c’è un utilizzo significativo di strumentazione elettronica?
MF) E’ un gusto e un piacere che arriva da lontano, proprio da quel disco di cui ho appena parlato, “Musimprop”. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 per fare ciò che volevo in mancanza di tecnologie evolute ero costretto, con un manipolo di pionieri come me, a sovrapporre e montare in studio musiche registrate separatamente, tagliando e incollando i nastri con forbici e nastro adesivo... Oggi per fortuna è tutto più facile, ma questa esperienza mi è rimasta dentro e mi fa sentire ancora più vicino a Méliès per il piacere “artigianale” che deriva dal costruire, accostare, colorare, trasformare.
Oggi trovo particolarmente interessante capitalizzare su questa esperienza per accostare e sovrapporre sonorità squisitamente acustiche a quelle prodotte dalla strumentazione elettrica ed elettronica.
TDJ) Grandi orchestre, progetti in completa solitudine, duetti, formazioni ridotte... In quale contesto si diverte di più Massimo Falascone oggi?
MF) In tutte le situazioni in cui mi ritrovo a suonare con le persone con cui amo farlo: grandi musicisti, belle persone a cui voler bene, amici generosi, vecchi e nuovi. Ne conosco tante e per me questa è davvero una grande gioia; sono tuttavia sempre alla ricerca di incontri da cui possano nascere nuove esperienze. Per il progetto Méliès, ad esempio, anche se prima ho pensato alla musica e poi scelto i componenti del settetto, mi rendo conto che in realtà i due diversi momenti non sono stati perfettamente sequenziali e distinti tra loro, e che la formazione ce l’avevo già in mente mentre componevo. Ad esempio pensavo al lavoro sul suono e sui dettagli che desideravo assegnare alla chitarra e avevo in testa le caratteristiche di Alessandra Novaga, così come pensavo al gusto estetico di Alberto Tacchini quando elaboravo la partitura del pianoforte insieme al sintetizzatore, in bilico tra melodie acustiche e sonorità elettroniche. Per non dire della giocosa e creativa “follia” di Filippo Monico... E poi l’energia, l’inventiva, la solidità, l’affidabilità di Cristiano Calcagnile, Silvia Bolognesi, Giancarlo Locatelli. E ora che il processo compositivo si è concluso e iniziamo a portare il progetto in scena, mi rendo conto di quanto sarebbe difficile far fronte alle sostituzioni se sfortunatamente dovessero rendersi necessarie in occasione dei concerti, che mi auguro numerosi, perché ho il piacere di lavorare con artisti difficilmente sostituibili, non solo per le caratteristiche tecniche, ma anche e soprattutto per la capacità espressiva, la comunicatività e le idee che condivido con ciascuno di loro.
TDJ) A quali altri progetti stai lavorando?
MF) Al momento sono impegnato in diversi contesti con la TAI NO-ORCHESTRA, di cui sono co- fondatore con Roberto Del Piano e il fotografo Roberto Masotti, un’idea particolarmente ambiziosa di orchestra “non orchestra” che lavora sulla musica e sulle immagini, con formazioni di varia natura e dimensione che nascono, si sviluppano, si trasformano e si fondono in svariate progettualità. Condivido anche un’esperienza in duo con la chitarrista Alessandra Novaga, un trio stabile con Alberto Braida e Filippo Monico, dal nome re:start, e un altro (MRCA, Most Recent Common Ancestor) con Giancarlo “Nino” Locatelli e Cristiano Calcagnile.
Sono poi sempre disponibile per partecipazioni a progetti dei musicisti che stimo, quali il “Multikulti” dello stesso Calcagnile, sentito tributo a Don Cherry che stiamo portando in giro per l’Italia proprio in questi giorni per promuovere il disco in uscita per l’etichetta veneta Caligola Records, e il “Milano Contemporary Art Ensemble” di Daniele Cavallanti; tra queste partecipazioni, ci tengo a segnalare l’ultima fatica discografica dell’amico Del Piano, “La Main Qui Cherche la Lumière”, un doppio CD prodotto dall’etichetta francese “Improvising Beings”, che uscirà a breve e che vede impegnati anche tanti componenti della TAI NO-ORCHESTRA e mio fratello Paolo.
Diciamo comunque che, insieme all’improvvisazione che non smetterò mai di praticare, dopo due progetti impegnativi e spero duraturi con formazioni numerose come Méliès e il sestetto “Ancient to the Future”, dedicato all’Art Ensemble of Chicago, vorrei da un lato riprendere a scrivere musica per piccoli gruppi (trii o quartetti), e dall’altro continuare a lavorare alla costruzione di ambientazioni sonore nello stile delle “Variazioni Mumacs”, il che mi consente di coltivare il mio interesse nell’ambito dell’elaborazione della musica al computer e dell’esplorazione dell’immagine, con particolare riferimento alla cinematografia e alle installazioni audiovisive.
TDJ) Quando hai parlato della TAI NO-ORCHESTRA ti si sono illuminati gli occhi; vuoi raccontarmi qualcosa in più di questa meravigliosa esperienza collettiva?
MF) L’idea si è sviluppata dal desiderio e dalla necessità che sentivo di creare un’orchestra di improvvisatori a Milano; molte città hanno un’orchestra di questo tipo, e mi chiedevo perché non dovesse averla quella in cui vivo e sono nato, in cui peraltro il materiale umano necessario non manca, anzi abbonda... Un giorno, mentre ne discutevo con Roberto Del Piano in un post su Facebook relativo a un brano della Globe Unity registrato dal vivo a Berlino nel 1970, Roberto Masotti ha commentato chiedendo se non fosse il caso di aggiungere a una musica così espressiva qualche elemento visivo; a quel punto mi si è accesa una lampadina, abbiamo continuato la conversazione in privato e dopo poche ore ci siamo incontrati a parlarne seduti a un tavolo di fronte a cous-cous, birra, acqua minerale e caffè in un locale che si trova al seminterrato dell’UPIM di Piazzale Corvetto. Così nacque TAI. Era la primavera del 2013, e ancora oggi le riunioni del direttivo dell’orchestra, composto dai suoi tre fondatori, si tengono in quello spazio glorioso...
L’etimologia del nome è il manifesto della nostra proposta artistica; TAI è l’acronimo di “Terra Australis Incognita”, dicitura che sulle antiche mappe geografiche indicava l’Antartide, e quindi un luogo sconosciuto verso cui viaggiare, che per noi rappresenta il concetto dell’improvvisazione libera. NO- ORCHESTRA indica lo sviluppo dell’idea originaria, e quindi la scelta di abbracciare nel collettivo una trentina di artisti (non solo musicisti...) che poi si esprimono però in piccoli gruppi e situazioni, un po’ come la Company di Derek Bailey, non disdegnando tuttavia, qualora le condizioni lo consentissero, di ritrovarsi sul palco tutti insieme, trasformando la NO-ORCHESTRA in un ensemble di grandi dimensioni. Sono molto contento della crescita di questo progetto, che sta diventando una realtà importante nel territorio nonostante le difficoltà di sopravvivenza, dato che non abbiamo mai ricevuto il minimo sostegno o aiuto da parte delle istituzioni; ma questo è praticamente scontato per chi si occupa di musica creativa o improvvisata nel nostro paese. Comunque siamo arrivati alla terza edizione del TAI FEST, che abbiamo concluso con successo pochi giorni fa al Masada dopo tre serate durante le quali si sono esibiti una quindicina di gruppi, vi sono state diverse proposte audiovisive e anche una piccola mostra espositiva. Inoltre nei giorni della rassegna abbiamo potuto presentare il primo doppio CD di TAI, pubblicato da Setola di Maiale, che raccoglie le improvvisazioni della prima edizione del festival, registrate al Moonshine di Via Ravenna, che ora ha chiuso i battenti.
L’obiettivo principale rimane quello originario; oltre a voler creare uno spazio, un contenitore per la musica improvvisata, ci teniamo a sottolineare la complicità naturale che esiste tra musica e immagini e la nostra totale apertura a qualsiasi forma espressiva.
TDJ) Raccontami in breve il tuo percorso artistico; quanto e come è cambiato Massimo Falascone dall’inizio della sua carriera ad oggi?
MF) Io condivido la teoria secondo la quale i tratti fondamentali della personalità e del carattere di un individuo si formano entro i primi cinque anni di vita; dopo non si cambia più. Si cresce, o almeno si dovrebbe, si ampliano le conoscenze, si imparano nuove lingue, la tecnica si affina, le tecnologie ti portano a conoscere nuovi mezzi espressivi e ti permettono di “stare sul pezzo”, come si suol dire, di adeguarti al mutevole contesto in cui sei inserito, ma cambiare è decisamente improbabile... Le idee rimangono quelle, poche ma fisse, come ti dicevo prima. Per questo in ogni mio artista di riferimento io sento sostanzialmente una sola idea, che si esprime in modi diversi ma rimane forte e ti accompagna per tutta la vita.
Per quanto mi riguarda, ho cominciato come molti ragazzi a suonare la chitarra, e non me la cavavo così male, poi sono passato al clarinetto e sono arrivato a suonare i sassofoni abbastanza tardi, almeno secondo gli standard della letteratura jazzistica, perché avevo già passato i vent’anni. Però la mia idea forte era già dentro di me, e sapevo a grandi linee la strada che dovevo percorrere, anche se oggi non saprei dire se le scelte che ne sono derivate mi hanno portato più vantaggi o problemi...... ma sono contento così, la soddisfazione di fare quello in cui si crede non ha prezzo. E poi, come dice il saggio, se le cose vanno così è perché vanno così.
Ho quindi cominciato a suonare con un gruppo di amici che mi hanno accolto e con cui ho condiviso la necessità di fare musica non convenzionale, come Filippo Monico, Edoardo Ricci, Eugenio Sanna, Stefano Bartolini; poi il Gruppo Contemporaneo... e intanto sul mio sentire musicale hanno influito molto il cinema (Kubrick su tutti) e la contemporanea (Ligeti e Varèse tra i primi); alla fine, credo di aver capito di essere diventato “maturo” quando ho imparato a fare gli errori giusti...
TDJ) Oltre alla musica, hai altre passioni o altre attività che ti tengono impegnato?
MF) Passioni tante, altri lavori nessuno. Tutta la mia vita professionale gravita intorno alla musica, in tutte le sue diverse forme ed espressioni. Performances, composizioni, collaborazioni con artisti, registi e coreografi per ambientazioni o per vere e proprie colonne sonore, spettacoli teatrali, documentari, video- installazioni. Ma anche workshop e master classes su improvvisazione e scrittura musicale.
TDJ) Di chi o di che cosa pensi di non poter fare a meno?
MF) Di tante cose..... di mia moglie Anna e dei miei figli Leonardo e Giovanni. Dei miei cari e degli amici veri. Dei musicisti con cui ho suonato. Di Bordogna (Ndr: frazione del comune di Roncobello, in provincia di Bergamo, Val Brembana, a 650 metri s.l.m.). Dei Beatles, dei Pink Floyd, di Robert Wyatt e i Gong. Di Kubrick, Hitchcock e Billy Wilder. Di Ligeti, Glenn Gould, John Cage. Del Grande Lebowski. Dell’Antologia dello humor nero di André Breton. Di Luis Buñuel e Francois Truffaut. Di Stephen King, di Cornell Woolrich. Della Pantera Rosa. Di Mingus, Monk, Ornette Coleman, dell’Art Ensemble of Chicago. Di Steve Lacy, Sun Ra, Ella Fitzgerald. Di Audrey Hepburn. Dei Monty Python. Di Easy Rider e di Woodstock. Degli Esercizi di stile di Raymond Queneau. Di Basquiat, Hieronymous Bosch, di Rothko e Paul Klee. Del Commissario Maigret, di Frankenstein. Di Miró e Kandinsky. Di Eric Dolphy, Morton Feldman, Henry Mancini e Bernard Herrmann. Di Anthony Braxton e Frank Zappa. Di Sherlock Holmes. Del Blues, di Ray Charles. Di Bach e di Mozart. Di Erik Satie e Marcel Duchamp. Di Philip K. Dick. Di Misha Mengelberg e di Duke Ellington. Di Stanlio e Ollio, di Peter Sellers. Di Monicelli, Fellini, Mastroianni. Di Gassman, Strehler, di Giorgio Gaber. Di Walter White. Dell’Inter. Del pane e della pasta. Di Paperino. Dei miei ricordi, degli anni ’70, dei miei sogni. Del mio iMac. Dei miei sassofoni. E di Méliès naturalmente...
TDJ) Mi sembra un elenco che dimostri più di tante parole la tua curiosità e la qualità dei tuoi interessi e delle tue passoni. Per concludere questa lunga e piacevole chiacchierata, vorrei solo chiederti cosa contiene lo scrigno dei desideri di Massimo Falascone.
MF) Un desiderio di semplicità, di pace e di musica. Quella giusta, però!
E se pensate che sul palcoscenico con Massimo Falascone, impegnato ai sassofoni, crackle box, oggetti e diavolerie elettroniche di ogni tipo, c’erano musicisti ed improvvisatori di tutto rispetto come Giancarlo Nino Locatelli (clarinetti, campane e oggetti), Alessandra Novaga (chitarra e oggetti), Alberto Tacchini (piano, synth ed elettronica), Silvia Bolognesi (contrabbasso), Cristiano Calcagnile (batteria e percussioni) e Filippo Monico (percussioni, oggetti strani e bolle di sapone) potete immaginarvi quanto ci siamo divertiti all’ARCI Scighera di Milano la sera del 16 aprile.
MF) Detto che da sempre amo il cinema e Méliès in particolare, spesso accade che le idee arrivino per caso, quando meno te lo aspetti. Una sera del precedente inverno occasionalmente ho avuto modo di vedere il film “Hugo Cabret”, di Martin Scorsese, nella quale è rappresentato lo stesso Méliès in età avanzata, nel suo chiosco di dolci e giocattoli all’interno della stazione di Montparnasse, dove realmente ha vissuto. Avevo già visto il film, ma quella sera è scattata una molla, e ho capito e sentito che quel personaggio sarebbe stato l’oggetto del mio prossimo progetto musicale.
Le idee sono come piccoli, strani fantasmi, degli invisibili spiritelli. Continuano a girarti intorno e spesso quando cerchi di afferrarli non si fanno prendere. Ogni tanto però qualcuno si appoggia sulla tua spalla e decide di stare un po’ di tempo con te... e questa volta è successo nel momento giusto, perché dopo aver pubblicato le “Variazioni Mumacs”, musica particolarmente strutturata ed elaborata al computer, avevo voglia di un progetto vivo che nascesse per essere rappresentato dal vivo, dal forte impatto scenico. Méliès è stato un inventore, uno sperimentatore, un artista a tutto tondo che usava trucchi come apparizioni e sparizioni, ripetizioni, metamorfosi, dissolvenze, sovrapposizioni; e soprattutto amava il gioco e il travestimento. Per questo sul palco chiedo ai musicisti di giocare con gli oggetti più strani e di indossare qualcosa di particolare, come un paio di occhiali colorati o un cappello, anche diverso ogni sera, per entrare in sintonia con l’omaggiato rappresentando nel contempo sé stessi. Non è una grande innovazione, se pensi all’Art Ensemble of Chicago, né pretende di esserlo, ma questo è lo spirito.
C’è poi un’altra cosa da dire; mi piace scrivere musica ispirandomi ad altre forme artistiche, e soprattutto al cinema, e amo scrivere brani originali. Cosa c’è di meglio quindi di un progetto dai contenuti miei, inusuale e in continua evoluzione, ispirato al cinema ma dotato di un proprio respiro e di un forte riferimento al sogno e all’astrazione?
TDJ) Che cosa hanno in comune Massimo Falascone e Georges Méliès?
MF) Tanto. Il gusto per il gioco, il paradosso, la fantasia. La voglia di sognare e di viaggiare verso l’ignoto, senza sapere esattamente dove arriverai ma perfettamente cosciente che prima o poi atterrerai in posti nuovi, tutti da scoprire. Méliès esprimeva questi concetti attraverso la fantasmagoria, l’astrazione e il sogno; ha precorso la fantascienza rifiutando l’uso della pellicola per riprodurre la natura così come la conosciamo e la vediamo tutti i giorni. Io allo stesso modo non amo adagiarmi su musiche omologate con regole e convenzioni imposte o comunque predefinite. L’improvvisazione, come sai, sta al centro del mio universo musicale, e quando la si affronta bisogna avere coraggio e rendersi disponibili a compiere un salto che ti porti al di là di quello che ben conosci e hai già sperimentato, per lanciarsi alla ricerca di mondi sconosciuti. Certo tutto questo comporta dei rischi, bisogna lasciarsi andare pur senza mai perdere il controllo, ma è un viaggio appassionante e si possono fare delle scoperte che prima sembravano impossibili.
TDJ) Normalmente la musica per il cinema è più scritta che improvvisata, a meno che non si tratti di sonorizzazioni estemporanee; il tuo progetto invece lascia ampio spazio all’improvvisazione e gli otto brani hanno un’atmosfera molto diversa l’uno dall’altro. Per quale motivo? E questa musica avrà bisogno delle immagini delle pellicole di Méliès per essere rappresentata o, al contrario, potrà funzionare a prescindere dal video?
MF) Ho scritto questa musica perché funzionasse a prescindere dalle immagini. Non è e non vuole essere musica descrittiva di una rappresentazione video, né tantomeno una sonorizzazione di film muti. Al momento mi sono quindi concentrato sullo sviluppo musicale, ma non escludo che un giorno potremmo suonarla proiettando delle immagini; per questo però mi piacerebbe avere al mio fianco un giovane Méliès, con il suo gusto sviluppato per le forme astratte, che giochi insieme a me e ai musicisti che mi accompagnano in questa esperienza con le “sue” immagini. Insomma, non è musica PER il cinema, ma musica che vive INSIEME al cinema, come se io e il “mio” Méliès immaginario avessimo costruito insieme 8 percorsi paralleli, visivi e sonori, ciascuno con mezzi e tempi propri.
Gli otto brani sono molto diversi tra loro perché ciascuno prende ispirazione, o per meglio dire deriva dalla visione e dall’analisi di uno specifico film, con le sue suggestioni inevitabilmente diverse dalle altre pellicole cui faccio riferimento; quindi otto brani per otto film, ciascuno con le proprie caratteristiche, il cui doppio filo conduttore è costituito solo dal suono, ricercato nel più minimo dettaglio, e dall’improvvisazione. Così il tortuoso percorso del flusso musicale si snoda attraverso i più diversi generi (se tale classificazione può avere ancora un senso), sfiorando un valzer suonato da un carretto a 4 ruote di quelli che diffondevano musica per le strade nei primi anni del ‘900, reminiscenze ornettiane nel brano “Non Impossibile” (ispirato dal film “Viaggio attraverso l’impossibile” di Méliès), il prog-rock dei Gong di Daevid Allen in “Maquillage” (con riferimento al corto del 1904 “Le roi du maquillage”), fino a “Homorchestra” (che prende spunto da “L’homme-orchestre”), in cui si avverte appena la presenza dell’Arkestra di Sun Ra. Chiude la scaletta una ninna nanna che cita un canto popolare cileno, unico episodio non relazionabile all’omaggiato francese.
TDJ) Nella presentazione del progetto scrivi che “...“Méliès” è anche un luogo archeologico, in cui si possono trovare frammenti del pensiero musicale di altri che ci hanno preceduto, prediletti autori di un recente passato, le cui memorie costituiscono la base su cui si fonda questa musica. Una musica forse non più - o non solo - d’avanguardia, che vuole consolidarsi in una moderna tradizione e resistere così alle scosse del tempo ...”. Credi che la sperimentazione su cui hai iniziato a lavorare negli anni ’80 sia ancora proponibile nel 2016, o pensi invece che un cambiamento sia ormai necessario? Muhal Richard Abrams dice che se oggi lui è definito un musicista d’avanguardia, alla sua veneranda età, c’è da preoccuparsi per il futuro di questa musica...
MF) Abrams è un grande punto di riferimento e ha ragione quando esprime la sua preoccupazione per il futuro di questa musica; in realtà ci sarebbe da preoccuparsi anche per il PRESENTE, anche se magari per motivi diversi.
Io credo che i grandi maestri della musica creativa ci hanno insegnato che le idee che stanno alla base della loro arte rimangono sempre le stesse, poche e ricorrenti in tutto il loro percorso artistico. Guarda Mingus, Duke, Ornette e persino Steve Lacy e Miles Davis; tutte carriere basate su scelte rigorose perpetrate fino alla fine, con idee che si sviluppano e modalità di sperimentare che cambiano e si aggiornano, ma appoggiate sempre sulle stesse solide fondamenta. Ecco, queste idee crescono, si consolidano, si muovono, si spostano, sembrano andare altrove, ma prima o poi ritornano; non è un cambiamento, ma un’evoluzione. E i grandi artisti che ho citato, guarda caso, sono anche tra i miei principali riferimenti stilistici, proprio per la loro coerenza e per la capacità di cercare sempre il nuovo, in contesti anche profondamente diversi tra loro, rimanendo tuttavia fedeli alla loro personale concezione artistica.
Certo, le mie sperimentazioni oggi non sono le stesse degli anni ’80, ma se ascolti “Musimprop”, che risale a 25 anni fa ed è stato recentemente ristampato dall’etichetta “Setola di Maiale” (e colgo l’occasione per ringraziare Stefano Giust per la sua sensibilità e disponibilità a distribuire questo tipo di produzioni, che solo chi è un musicista prima ancora che un discografico può avere), puoi renderti conto che questa musica è ancora attuale, grazie alla rigorosità e alla solidità delle idee da cui prende le mosse. Come dice il trombonista Giancarlo Schiaffini, “...l’improvvisazione non si improvvisa...”.
La mia idea ricorrente, ormai consolidata, è quella di tentare di coordinare la scrittura con l’improvvisazione; non so dirti se e quanto ci sia di nuovo in questo approccio, che proprio per tale incertezza definisco “moderna tradizione”, però mi fa piacere quando qualcuno, a fine concerto, viene a dirmi di aver sentito “qualcosa di nuovo”. In altre parole, cerco di “organizzare” la libertà, rimanendo al contempo aperto alle sorprese e ad accogliere, anzi, a cercare l’inaspettato.
TDJ) Come mai negli ultimi anni nelle tue proposte musicali c’è un utilizzo significativo di strumentazione elettronica?
MF) E’ un gusto e un piacere che arriva da lontano, proprio da quel disco di cui ho appena parlato, “Musimprop”. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 per fare ciò che volevo in mancanza di tecnologie evolute ero costretto, con un manipolo di pionieri come me, a sovrapporre e montare in studio musiche registrate separatamente, tagliando e incollando i nastri con forbici e nastro adesivo... Oggi per fortuna è tutto più facile, ma questa esperienza mi è rimasta dentro e mi fa sentire ancora più vicino a Méliès per il piacere “artigianale” che deriva dal costruire, accostare, colorare, trasformare.
Oggi trovo particolarmente interessante capitalizzare su questa esperienza per accostare e sovrapporre sonorità squisitamente acustiche a quelle prodotte dalla strumentazione elettrica ed elettronica.
TDJ) Grandi orchestre, progetti in completa solitudine, duetti, formazioni ridotte... In quale contesto si diverte di più Massimo Falascone oggi?
MF) In tutte le situazioni in cui mi ritrovo a suonare con le persone con cui amo farlo: grandi musicisti, belle persone a cui voler bene, amici generosi, vecchi e nuovi. Ne conosco tante e per me questa è davvero una grande gioia; sono tuttavia sempre alla ricerca di incontri da cui possano nascere nuove esperienze. Per il progetto Méliès, ad esempio, anche se prima ho pensato alla musica e poi scelto i componenti del settetto, mi rendo conto che in realtà i due diversi momenti non sono stati perfettamente sequenziali e distinti tra loro, e che la formazione ce l’avevo già in mente mentre componevo. Ad esempio pensavo al lavoro sul suono e sui dettagli che desideravo assegnare alla chitarra e avevo in testa le caratteristiche di Alessandra Novaga, così come pensavo al gusto estetico di Alberto Tacchini quando elaboravo la partitura del pianoforte insieme al sintetizzatore, in bilico tra melodie acustiche e sonorità elettroniche. Per non dire della giocosa e creativa “follia” di Filippo Monico... E poi l’energia, l’inventiva, la solidità, l’affidabilità di Cristiano Calcagnile, Silvia Bolognesi, Giancarlo Locatelli. E ora che il processo compositivo si è concluso e iniziamo a portare il progetto in scena, mi rendo conto di quanto sarebbe difficile far fronte alle sostituzioni se sfortunatamente dovessero rendersi necessarie in occasione dei concerti, che mi auguro numerosi, perché ho il piacere di lavorare con artisti difficilmente sostituibili, non solo per le caratteristiche tecniche, ma anche e soprattutto per la capacità espressiva, la comunicatività e le idee che condivido con ciascuno di loro.
TDJ) A quali altri progetti stai lavorando?
MF) Al momento sono impegnato in diversi contesti con la TAI NO-ORCHESTRA, di cui sono co- fondatore con Roberto Del Piano e il fotografo Roberto Masotti, un’idea particolarmente ambiziosa di orchestra “non orchestra” che lavora sulla musica e sulle immagini, con formazioni di varia natura e dimensione che nascono, si sviluppano, si trasformano e si fondono in svariate progettualità. Condivido anche un’esperienza in duo con la chitarrista Alessandra Novaga, un trio stabile con Alberto Braida e Filippo Monico, dal nome re:start, e un altro (MRCA, Most Recent Common Ancestor) con Giancarlo “Nino” Locatelli e Cristiano Calcagnile.
Sono poi sempre disponibile per partecipazioni a progetti dei musicisti che stimo, quali il “Multikulti” dello stesso Calcagnile, sentito tributo a Don Cherry che stiamo portando in giro per l’Italia proprio in questi giorni per promuovere il disco in uscita per l’etichetta veneta Caligola Records, e il “Milano Contemporary Art Ensemble” di Daniele Cavallanti; tra queste partecipazioni, ci tengo a segnalare l’ultima fatica discografica dell’amico Del Piano, “La Main Qui Cherche la Lumière”, un doppio CD prodotto dall’etichetta francese “Improvising Beings”, che uscirà a breve e che vede impegnati anche tanti componenti della TAI NO-ORCHESTRA e mio fratello Paolo.
Diciamo comunque che, insieme all’improvvisazione che non smetterò mai di praticare, dopo due progetti impegnativi e spero duraturi con formazioni numerose come Méliès e il sestetto “Ancient to the Future”, dedicato all’Art Ensemble of Chicago, vorrei da un lato riprendere a scrivere musica per piccoli gruppi (trii o quartetti), e dall’altro continuare a lavorare alla costruzione di ambientazioni sonore nello stile delle “Variazioni Mumacs”, il che mi consente di coltivare il mio interesse nell’ambito dell’elaborazione della musica al computer e dell’esplorazione dell’immagine, con particolare riferimento alla cinematografia e alle installazioni audiovisive.
TDJ) Quando hai parlato della TAI NO-ORCHESTRA ti si sono illuminati gli occhi; vuoi raccontarmi qualcosa in più di questa meravigliosa esperienza collettiva?
MF) L’idea si è sviluppata dal desiderio e dalla necessità che sentivo di creare un’orchestra di improvvisatori a Milano; molte città hanno un’orchestra di questo tipo, e mi chiedevo perché non dovesse averla quella in cui vivo e sono nato, in cui peraltro il materiale umano necessario non manca, anzi abbonda... Un giorno, mentre ne discutevo con Roberto Del Piano in un post su Facebook relativo a un brano della Globe Unity registrato dal vivo a Berlino nel 1970, Roberto Masotti ha commentato chiedendo se non fosse il caso di aggiungere a una musica così espressiva qualche elemento visivo; a quel punto mi si è accesa una lampadina, abbiamo continuato la conversazione in privato e dopo poche ore ci siamo incontrati a parlarne seduti a un tavolo di fronte a cous-cous, birra, acqua minerale e caffè in un locale che si trova al seminterrato dell’UPIM di Piazzale Corvetto. Così nacque TAI. Era la primavera del 2013, e ancora oggi le riunioni del direttivo dell’orchestra, composto dai suoi tre fondatori, si tengono in quello spazio glorioso...
L’etimologia del nome è il manifesto della nostra proposta artistica; TAI è l’acronimo di “Terra Australis Incognita”, dicitura che sulle antiche mappe geografiche indicava l’Antartide, e quindi un luogo sconosciuto verso cui viaggiare, che per noi rappresenta il concetto dell’improvvisazione libera. NO- ORCHESTRA indica lo sviluppo dell’idea originaria, e quindi la scelta di abbracciare nel collettivo una trentina di artisti (non solo musicisti...) che poi si esprimono però in piccoli gruppi e situazioni, un po’ come la Company di Derek Bailey, non disdegnando tuttavia, qualora le condizioni lo consentissero, di ritrovarsi sul palco tutti insieme, trasformando la NO-ORCHESTRA in un ensemble di grandi dimensioni. Sono molto contento della crescita di questo progetto, che sta diventando una realtà importante nel territorio nonostante le difficoltà di sopravvivenza, dato che non abbiamo mai ricevuto il minimo sostegno o aiuto da parte delle istituzioni; ma questo è praticamente scontato per chi si occupa di musica creativa o improvvisata nel nostro paese. Comunque siamo arrivati alla terza edizione del TAI FEST, che abbiamo concluso con successo pochi giorni fa al Masada dopo tre serate durante le quali si sono esibiti una quindicina di gruppi, vi sono state diverse proposte audiovisive e anche una piccola mostra espositiva. Inoltre nei giorni della rassegna abbiamo potuto presentare il primo doppio CD di TAI, pubblicato da Setola di Maiale, che raccoglie le improvvisazioni della prima edizione del festival, registrate al Moonshine di Via Ravenna, che ora ha chiuso i battenti.
L’obiettivo principale rimane quello originario; oltre a voler creare uno spazio, un contenitore per la musica improvvisata, ci teniamo a sottolineare la complicità naturale che esiste tra musica e immagini e la nostra totale apertura a qualsiasi forma espressiva.
TDJ) Raccontami in breve il tuo percorso artistico; quanto e come è cambiato Massimo Falascone dall’inizio della sua carriera ad oggi?
MF) Io condivido la teoria secondo la quale i tratti fondamentali della personalità e del carattere di un individuo si formano entro i primi cinque anni di vita; dopo non si cambia più. Si cresce, o almeno si dovrebbe, si ampliano le conoscenze, si imparano nuove lingue, la tecnica si affina, le tecnologie ti portano a conoscere nuovi mezzi espressivi e ti permettono di “stare sul pezzo”, come si suol dire, di adeguarti al mutevole contesto in cui sei inserito, ma cambiare è decisamente improbabile... Le idee rimangono quelle, poche ma fisse, come ti dicevo prima. Per questo in ogni mio artista di riferimento io sento sostanzialmente una sola idea, che si esprime in modi diversi ma rimane forte e ti accompagna per tutta la vita.
Per quanto mi riguarda, ho cominciato come molti ragazzi a suonare la chitarra, e non me la cavavo così male, poi sono passato al clarinetto e sono arrivato a suonare i sassofoni abbastanza tardi, almeno secondo gli standard della letteratura jazzistica, perché avevo già passato i vent’anni. Però la mia idea forte era già dentro di me, e sapevo a grandi linee la strada che dovevo percorrere, anche se oggi non saprei dire se le scelte che ne sono derivate mi hanno portato più vantaggi o problemi...... ma sono contento così, la soddisfazione di fare quello in cui si crede non ha prezzo. E poi, come dice il saggio, se le cose vanno così è perché vanno così.
Ho quindi cominciato a suonare con un gruppo di amici che mi hanno accolto e con cui ho condiviso la necessità di fare musica non convenzionale, come Filippo Monico, Edoardo Ricci, Eugenio Sanna, Stefano Bartolini; poi il Gruppo Contemporaneo... e intanto sul mio sentire musicale hanno influito molto il cinema (Kubrick su tutti) e la contemporanea (Ligeti e Varèse tra i primi); alla fine, credo di aver capito di essere diventato “maturo” quando ho imparato a fare gli errori giusti...
TDJ) Oltre alla musica, hai altre passioni o altre attività che ti tengono impegnato?
MF) Passioni tante, altri lavori nessuno. Tutta la mia vita professionale gravita intorno alla musica, in tutte le sue diverse forme ed espressioni. Performances, composizioni, collaborazioni con artisti, registi e coreografi per ambientazioni o per vere e proprie colonne sonore, spettacoli teatrali, documentari, video- installazioni. Ma anche workshop e master classes su improvvisazione e scrittura musicale.
TDJ) Di chi o di che cosa pensi di non poter fare a meno?
MF) Di tante cose..... di mia moglie Anna e dei miei figli Leonardo e Giovanni. Dei miei cari e degli amici veri. Dei musicisti con cui ho suonato. Di Bordogna (Ndr: frazione del comune di Roncobello, in provincia di Bergamo, Val Brembana, a 650 metri s.l.m.). Dei Beatles, dei Pink Floyd, di Robert Wyatt e i Gong. Di Kubrick, Hitchcock e Billy Wilder. Di Ligeti, Glenn Gould, John Cage. Del Grande Lebowski. Dell’Antologia dello humor nero di André Breton. Di Luis Buñuel e Francois Truffaut. Di Stephen King, di Cornell Woolrich. Della Pantera Rosa. Di Mingus, Monk, Ornette Coleman, dell’Art Ensemble of Chicago. Di Steve Lacy, Sun Ra, Ella Fitzgerald. Di Audrey Hepburn. Dei Monty Python. Di Easy Rider e di Woodstock. Degli Esercizi di stile di Raymond Queneau. Di Basquiat, Hieronymous Bosch, di Rothko e Paul Klee. Del Commissario Maigret, di Frankenstein. Di Miró e Kandinsky. Di Eric Dolphy, Morton Feldman, Henry Mancini e Bernard Herrmann. Di Anthony Braxton e Frank Zappa. Di Sherlock Holmes. Del Blues, di Ray Charles. Di Bach e di Mozart. Di Erik Satie e Marcel Duchamp. Di Philip K. Dick. Di Misha Mengelberg e di Duke Ellington. Di Stanlio e Ollio, di Peter Sellers. Di Monicelli, Fellini, Mastroianni. Di Gassman, Strehler, di Giorgio Gaber. Di Walter White. Dell’Inter. Del pane e della pasta. Di Paperino. Dei miei ricordi, degli anni ’70, dei miei sogni. Del mio iMac. Dei miei sassofoni. E di Méliès naturalmente...
TDJ) Mi sembra un elenco che dimostri più di tante parole la tua curiosità e la qualità dei tuoi interessi e delle tue passoni. Per concludere questa lunga e piacevole chiacchierata, vorrei solo chiederti cosa contiene lo scrigno dei desideri di Massimo Falascone.
MF) Un desiderio di semplicità, di pace e di musica. Quella giusta, però!
E se pensate che sul palcoscenico con Massimo Falascone, impegnato ai sassofoni, crackle box, oggetti e diavolerie elettroniche di ogni tipo, c’erano musicisti ed improvvisatori di tutto rispetto come Giancarlo Nino Locatelli (clarinetti, campane e oggetti), Alessandra Novaga (chitarra e oggetti), Alberto Tacchini (piano, synth ed elettronica), Silvia Bolognesi (contrabbasso), Cristiano Calcagnile (batteria e percussioni) e Filippo Monico (percussioni, oggetti strani e bolle di sapone) potete immaginarvi quanto ci siamo divertiti all’ARCI Scighera di Milano la sera del 16 aprile.