MF rec B


  follow me

40+40 bandcamp42x42 YouTube40x40 soundcloud40x40 facebook2

Massimo Falascone: Méliès

di Monica Carretta
Stacks Image 13213
Milano, Spazio Tertulliano, 13/01/2019, Città Sonora (foto di Roberto Masotti)
Il nuovo lavoro del sassofonista e compositore milanese Massimo Falascone si rivela uno dei dischi più interessanti della prima parte del 2019
Nel chiarire come concepisse il suo programma di ricerca musicale, John Coltrane dichiarò: «Dovremmo cercare, pregando di riceverla, la sapienza che ci renda capaci di descrivere e proiettare nella musica le cose che amiamo».

Massimo Falascone, sassofonista e insegnante di jazz, improvvisatore e performer, direttore artistico di molteplici eventi culturali, compositore di musica elettro-acustica e con una lunga esperienza nella scrittura di musica per teatro, danza, documentari, registi e artisti, con l’album «Méliès» mostra con efficacia di aver raggiunto la sapienza invocata da Coltrane. Una delle sue tante passioni è il cinema, fonte di intense pulsioni del suo lavoro artistico e della sua vita di uomo.
.
.
Nel tuo percorso artistico il contributo creativo scaturito dal cinema è fortemente presente, penso ad esempio prima ancora di «Méliès» all’album «Variazioni Mumacs» ispirato da un lungometraggio del regista canadese François Girard, a sua volta illuminato dalla musica. Direi un lavoro di richiami reciproci tra immagini e suoni che si interconnettono e scambiano.
E prima ancora c’era stato «HAL», una mia interpretazione musicale del film «2001: Odissea nello spazio» di Stanley Kubrick, alla cui elaborazione ho dedicato due anni della mia vita, tra il 1999 e il 2001. Pensato per un ensemble creativo piuttosto numeroso, è un progetto a cui sono molto affezionato, e per quanto non abbia avuto a suo tempo gli sbocchi sperati è tuttora lì, nell’aria, o per meglio dire nello spazio, in attesa. Alcuni dei brani composti per «HAL» sono comunque stati registrati e pubblicati in altri contesti e ancora oggi sono nel mio repertorio. Le «Variazioni Mumacs» sono invece… qualcosa di completamente diverso, per citare i Monty Python. Si tratta sostanzialmente di un lavoro di editing, un complesso collage sonoro costruito sulla struttura del film di François Girard «Thirty Two Short Films About Glenn Gould» (1993), a sua volta ispirato alle «Variazioni Goldberg» di Bach. Dall’analisi del film ho ricavato una serie di fantasie che ho trasmesso a numerosi amici musicisti, chiedendo loro di trasformarle in brevi improvvisazioni. Nel frattempo ho registrato e campionato voci e chitarre dei miei figli, suoni della natura, il chiasso di un mercato parigino, bambini che giocano ai giardini pubblici, parole e testi declamati in diverse lingue, frammenti di canzoni del passato, di film e altre apparizioni. Ho infine aggiunto miei contributi ai sassofoni, elettronica e voce. Ho agitato, mescolato e riportato tutto questo materiale a comporre la suite finale di 32 piccoli pezzi. Un percorso formato sì principalmente da improvvisazioni, ma plasmate in un processo compositivo. E questo è quanto. Consigliato a orecchie di tutte le età, ma che siano libere e curiose.

Nel 2011 Martin Scorsese realizzò un’autentica dichiarazione d’amore per la settima arte con Hugo Cabret, un raffinato quanto visionario film che ripercorse gli albori del cinema e la vita di Georges Méliès, inventore del cinema di fantascienza e a suo volta un visionario sperimentatore. Come nacque l’idea germinale che ha dato vita al tuo nuovo album «Méliès»?
Nacque, come spesso accade, per caso. E precisamente quando, una sera d’inverno, riguardavo proprio «Hugo Cabret». Avevo già visto il film ma quella volta è scattata una molla, c’è stato un click, e ho capito che Georges Méliès sarebbe stato il protagonista del mio prossimo progetto musicale.Io penso che le idee siano come degli invisibili spiritelli. Stanno lì, nell’aria, ti girano attorno, sono dispettose quando cerchi inutilmente di afferrarle ma prima o poi arriva quella giusta. Devi allora essere pronto a riceverla. Questa volta si è svelata proprio quando, dopo le «Variazioni Mumacs» stavo cercando un’idea per un progetto da proporre anche in concerto, dal vivo. Insomma l’ho presa, ed è stato così che ho varcato lo specchio magico e mi sono immerso nel fantasioso, mirabolante mondo di Georges Méliès.
Stacks Image 13225
Milano, Spazio Tertulliano, 13/01/2019, Città Sonora (foto di Roberto Masotti)
Ascoltando «Méliès» si è coinvolti da una musica chiaramente non pensata come colonna sonora del suo cinema eppure hai saputo ricreare delle evocazioni così forti che mentalmente è quasi inevitabile richiamino alcune delle scene più note dei suoi film.
Infatti qui la musica fluisce indipendente con tempi e respiri propri e non è da intendersi come sonorizzazione degli otto film da cui trae ispirazione. Evoca semmai, come hai detto tu, un immaginario salto spazio-temporale che ci riporti ai film di Méliès e a visualizzarli dentro la musica, a pensarli con le orecchie. Facciamo per esempio una carrellata di come alcune visioni, per ciascun pezzo, si siano dalla mia mente trasferite in musica. Le formule magiche declamate in «Parafaragamus», lo sferragliare degli ingranaggi del treno che si appresta a partire in «Moving Train», quel momento di pace che esplode nel tema vagamente fin de siècle in «Rubber Head», le spigolosità del tema e il succedersi delle improvvisazioni in «Homorchestra», l’attraversamento di un immaginario campo di asteroidi in «Luna Trip», le trasformazioni psichedeliche in omaggio a Daevid Allen di «Maquillage», la fluidità liquida di «Sirene», l’incursione nell’universo armolodico di Ornette con il collettivo free di «Non Impossibile». Mi piace pensare che Méliès, guardandoci da lassù, abbia gradito e si stia divertendo un po’ con noi.

Gli otto brani sono tue composizioni che tracciano un libero percorso tra improvvisazioni e scompigli in libera associazione riordinati da tempi, ritmi e precisi assetti tra i musicisti. L’energia scaturita sembra arrivi dalle scintille di voluti cortocircuiti e attriti.
Ecco: in poche righe hai condensato tutto quel che c’è da sapere. «Méliès» è pensato come un ciclo di otto brani. Questi sono oggi e così resteranno in futuro. Ogni brano contiene momenti fissati su carta e altri aperti all’improvvisazione, e i film di Méliès rappresentano la partitura occulta. Non c’è niente di pretestuoso in tutto ciò. Ci tengo a sottolineare questo aspetto perché non è scontato che risulti chiaro a tutti. Immaginiamo tasselli di forma diversa, parti scritte e percorsi improvvisativi che si riordinano come le sette tavolette del Tangram. Le improvvisazioni si alternano in combinazioni interne alla struttura ma allo stesso tempo le si devono affrontare con la massima apertura e libertà.
Nessuna invenzione da rivendicare, c’è solo il mio punto di vista che risponde a quel desiderio, comune a tanti musicisti, di coordinare la scrittura con l’improvvisazione. Mi piace che la musica proceda in un equilibrio instabile, con quell’incertezza per me sempre affascinante. Un sistema organizzato e insieme eterodosso, aperto alle sorprese e pronto ad accogliere, anzi, a cercare l’inaspettato. Niente mi fa più piacere di quando qualcuno, a fine concerto, si sofferma per dirmi di aver sentito «qualcosa di nuovo». Succede anche questo, ogni tanto.

Left Alone di Mal Waldron, che introduce il settimo brano dell’album, è l’unica composizione non tua. Perché l’hai scelta?
In molti miei lavori amo inserire un brano di autori per me significativi. È una suggestione che ogni volta mi attrae, fino a diventare quasi un’esigenza. Ci sono stati «Peggy’s Blue Skylight» di Mingus nell’album «Falsa Partenza», «Ericka» di Joseph Jarman in «Works 05-007-2008» e «Light Blue» di Monk nelle «Variazioni Mumacs». «Méliès» non poteva fare eccezione. In questo caso mi stavo orientando su una ballad, perché avevo deciso che il penultimo brano della serie, che è un po’ scuro, subacqueo, dovesse essere annunciato da qualcosa di speciale. Cercavo un tema che si adattasse a un’interpretazione aperta, collettiva. E sfumando doveva collegarsi a «Sirene» tramite un assolo di basso di Silvia Bolognesi. A un certo punto è arrivato «Left Alone», ha bussato con discrezione alla finestra… e non ho dovuto fare altro che lasciarlo entrare. Spesso sono i dettagli che condizionano le scelte, più di quanto si possa immaginare.
Stacks Image 13233
Il tuo settetto è composto da musicisti protagonisti della scena improvvisativa, quasi tutti dell’area milanese, con cui suoni e collabori in diverse formazioni già da molti anni. Quando hai iniziato il progetto avevi già ben presente chi sarebbero stati, oppure hai dapprima strutturato il progetto compositivo e poi formato il gruppo?
A dire il vero non ho dovuto pensarci troppo perché le cose si sono chiarite un po’ alla volta da sole, strada facendo. La premessa era che il suono dovesse stare, ancora una volta, al centro di tutto. Per prima cosa, volevo un gruppo di una certa ampiezza che esprimesse sonorità sia acustiche sia elettriche con varietà di combinazioni strumentali. Man mano che il progetto prendeva forma, quindi, mentre i suoni che desideravo ottenere si chiarivano nella mia mente, ho cominciato a visualizzare le persone giuste, e certamente le ho trovate tra quelle fidate. Allo stesso tempo, focalizzare la loro presenza, immaginare le differenti personalità all’interno del gruppo e la molteplicità dei suoni possibili, mi ha suggerito soluzioni ad hoc che si sono poi concretizzate nel percorso compositivo/improvvisativo. E poi c’è l’aspetto forse più importante, e cioè la bellezza e la genuinità dei rapporti umani che ha saldato il tutto.

Quando si parla di un nuovo album se ne analizzano sempre la gestazione e il risultato. Vorrei chiederti se, in progetti come questo, hanno una parte ponderabile anche le prove oppure se, fin dall’inizio, tale è l’affinità del gruppo da non renderle così necessarie.
Diciamo che quando si ha a che fare con musicisti di questo livello non si parte mai da zero. D’altronde, oltre a esserci con alcuni di loro una frequentazione pluridecennale, esiste tra noi tutti un’empatia, una velocità di pensiero che rende facile intendersi al volo, spesso senza bisogno di tante parole. Le prove però sono comunque necessarie, soprattutto quando bisogna metabolizzare un progetto come «Méliès», impegnativo non tanto per le note da leggere quanto per la sua particolare struttura. Ci vuole sempre un po’ di tempo per prendere confidenza con i materiali e far sì che la musica cominci davvero a «rotolare».
Faccio un passo indietro. Nel 1993 io, Nino Locatelli e Filippo Monico abbiamo fondato «Takla Makan», un trio dedicato alla musica improvvisata che probabilmente gli appassionati del genere conoscono e che potrebbe anche collocarsi in un piccolo spazio nella storia della musica improvvisata italiana. Per farla breve, questo gruppo si trovava regolarmente in sedute di prova allo scopo di indagare i principali materiali necessari alla pratica improvvisativa. Una consuetudine durata anni. Il sistema era semplice e, allo stesso tempo, rigoroso: verbalizzavamo e registravamo le sessioni che venivano dirette, a rotazione, da ciascuno di noi. A turno i direttori dovevano fornire agli altri indicazioni, spunti e materiali su cui lavorare. A volte poteva anche essere concesso di suonare in totale libertà. Ancora oggi sento i benefici di questo lavoro di ricerca che ho continuato a praticare anche individualmente e che cerco di trasmettere quando ho l’occasione di condurre laboratori d’improvvisazione.

Parte vitale di «Méliès» è il lato scherzoso, ludico e visivo che ben si evince nelle esecuzioni dal vivo. Maschere e costumi ma anche un arsenale davvero unico, come bolle di sapone e strange objects in dotazione soprattutto a Monico.
Questa è forse la parte più divertente. Un lavoro su Méliès non poteva trascurare il gioco e il travestimento. Fin dall’inizio ho pensato che in concerto avremmo dovuto fornirci degli oggetti più strani e indossare qualcosa di bizzarro: io stesso mi travesto da scienziato pazzo, in camice bianco e con appositi occhiali; Silvia indossa un fantastico costume da scheletro; Nino Locatelli, Alessandra Novaga e Cristiano Calcagnile si sbizzarriscono scambiandosi in scena cappelli d’epoca e occhiali colorati; Alberto Tacchini che addobba il piano con lucine colorate simil natalizie; infine Filippo, che qui domina la scena muovendosi sul palco, indossando maschere e travestimenti durante il concerto e agitando, sfregando e suonando un armamentario di oggetti ogni volta diverso, bolle di sapone comprese. Ecco perché durante il concerto non sono previste proiezioni video, per rispondere a una domanda che mi viene posta di frequente. Per come si è assestato lo spettacolo non sono più compatibili. Facciamo già abbastanza cose noi, le immagini distoglierebbero l’attenzione da quel che succede sul palco.

Quanta importanza ha il ricordo della musica del passato nella tua espressione artistica?
Ho avuto la fortuna di ritrovarmi pre-adolescente in un periodo in cui nell’aria, dappertutto, circolava tanta musica. Sono cresciuto a pane e Beatles, per dire, erano anni ricchi di creatività e hanno lasciato dentro di me un segno. Da allora ho accumulato migliaia di dischi, tra 45 giri, lp e cd che poi ho trasferito, un po’ alla volta, nella mia attuale libreria di iTunes. Ho assistito a non so quanti concerti, ho letto tutto quel che ho potuto, ho ascoltato e amato musiche di ogni tipo, da Enzo Jannacci a Frank Zappa, dai raga indiani ai blues del Delta, da Bach a Stockhausen, da Ellington alla Globe Unity… Ma quando suono non suono di tutto. Citando Henry Threadgill, la musica va studiata il più possibile, ma poi ognuno deve trovare la propria strada. È così che si sono formati i grandi musicisti del passato ed è così che dobbiamo continuare a fare noi. Non ci si può fermare con la pretesa di riprodurre la storia, bisogna andare avanti e vivere il presente pur rivolgendo sempre uno sguardo al futuro.
Per quanto mi riguarda, le musiche del passato sono state le fondamenta su cui si sono modellate le idee, poche ma fisse, confluite nelle mie scelte musicali e nel mio approccio strumentale. Idee che nel tempo possono crescere, aggiornarsi, muoversi, subire processi di sperimentazione, ma restano sempre appoggiate sulle stesse solide basi. Io faccio la mia musica e nello specifico, come ho scritto presentando «Méliès» sul mio sito, «non mancano omaggi psichedelici a Daevid Allen, folletto fondatore dei Gong, e dediche armolodiche a Ornette Coleman. Con lo spiritello di Sun Ra che ci guarda dall’alto. «Méliès» infatti è anche un luogo archeologico, in cui si possono trovare frammenti del pensiero musicale di chi ci ha preceduto, prediletti autori di un recente passato, le cui memorie costituiscono la base su cui si fonda questa musica. Una musica forse non più – o non solo – d’avanguardia, che vuole consolidarsi in una moderna tradizione e resistere così alle scosse del tempo».

Monica Carretta [da Musica Jazz, luglio 2019]


Leggi l'intervista sul sito di Musica Jazz